La leggerezza e la pesantezza della popular music: bubblegum vs chewingrock

La leggerezza e la pesantezza della popular music: bubblegum vs chewingrock

Nel 1967 a New York i transfughi dell’etichetta Kama Sutra Records, Art Kass, Artie Ripp, Hy Mizrahi e Phil Steinberg, fondano la casa discografica Buddah Records. Sotto la direzione di Neil Bogart, una buon numero di musicisti viene affidato a Jerry Kasenetz e Jeffry Katz, responsabili della compagnia di produzione Super K Productions e già attivi presso l’etichetta Cameo-Parkway Records. I due produttori passano alla storia come inventori della musica bubblegum e promotori di progetti fortunati come Ohio Express e 1910 Fruitgum Company, per i quali esercitano un ruolo determinante in sala d’incisione. Il sottogenere del pop in questione poggia su canzoni facili e immediate, pensate come prodotti di consumo usa e getta per un pubblico adolescenziale e soprattutto preadolescenziale. L’etichetta bubblegum, inventata dagli stessi produttori, rimanda a un immaginario familiare al mondo infantile: la bolla che si gonfia e scoppia, nel giro di qualche secondo e la gomma che si assapora e si sputa, nel giro di qualche minuto. D’altra parte, i testi dei brani sono dominati dal tema amoroso ma fanno spesso riferimento ai cibi zuccherati preferiti dai ragazzini. L’era classica della bubblegum si dipana dal 1967 al 1972 e in quel lustro si confronta con psichedelia e garage prima di influenzare il glam. Questo tipo particolare di pop nasce e si sviluppa come risposta a ragioni puramente commerciali ma anche come reazione alle produzioni marcatamente artistiche di quel periodo cruciale e fecondo.

Finita l’era gloriosa del surf e del beat, intorno al 1964, nella scena musicale angloamericana si fa largo il desiderio di superare il formato canzone e il minutaggio standard, di abbandonare un linguaggio semplice per approdare a un codice complesso. Nel 1965, Bob Dylan pubblica su 45 giri "Like a Rolling Stone”, una canzone lunga e articolata, con la quale, confermando il suo traumatico passaggio dall’acustico all’ellettrico, supera la soglia dei cinque minuti di durata e veicola un testo di alta caratura poetica. “Like a Rolling Stone” non è solo una semplice canzone ma una vera opera d’arte e le sue qualità stimolano l’intera scena internazionale: presto gruppi come Mothers e Velvet Underground in America e Pink Floyd e Soft Machine in Inghilterra realizzano dischi ambiziosi e sperimentali. Nel biennio 1966-1967 decolla la psichedelia, tra apparecchiature elettroniche e strumenti esotici, e si fa strada anche una nuova idea di composizione musicale, libera dai vecchi schemi e aperta a nuovi orizzonti. Molte band della generazione floreale pongono in secondo piano le preoccupazioni radiofoniche e si concentrano sulle ambizioni artistiche. Il cambio di paradigma ispira una lunga sequela di capolavori assoluti, di dischi raffinati e ricercati con soluzioni sonore e testuali lontane dalle logiche del consumo. In sostanza il pop-rock smette di essere solo musica leggera e diventa una nuova forma estetica: cambia così l’approccio alla composizione da parte dei musicisti ma anche la modalità di ascolto da parte dei ragazzi e delle ragazze.

Mese dopo mese, una parte nutrita del pubblico giovanile smette di fruire musica in modo distratto per puro intrattenimento ma presta un’attenzione sempre maggiore a testi e melodie, dedicando tempo e risorse alla comprensione dei dischi. Nel 1967, la pubblicazione di un album come Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles rappresenta un altro spartiacque: da quel momento l’LP non è più una semplice raccolta di canzoni edite su singolo ma diventa compiutamente un formato a sé stante, uguale per il mercato inglese e americano, in cui i brani possono essere collegati tra loro. Negli anni successivi, il 45 giri cede il passo al 33 giri e la centralità del mercato passa progressivamente dal formato breve a quello lungo. Prende piede, contestualmente, la moda del concept album, del disco a tema con una trama analoga a quella di film e romanzi. Questo mutamento radicale viene interpretato dalla critica come una sorta di maturazione degli artisti e degli ascoltatori ma anche del pop-rock stesso come forma espressiva. D’altra parte, sviluppare sulla lunga distanza un discorso, sonoro o letterario, in maniera articolata rappresenta senza dubbio un salto di qualità ma patisce un sacrificio in materia di immediatezza. Il pop-rock intraprende quindi un percorso di nobilitazione: si pone sulle tracce del jazz, passato nel corso dei decenni dai locali malfamati alle sale concertistiche, e si confronta con la musica colta, grazie all’impiego di orchestre classiche o escamotage avanguardistici.

Il sottogenere bubblegum si muove, intanto, tra due modelli limite, i Monkees e gli Archies: una band costruita a tavolino e aiutata in studio ma formata da musicisti in carne e ossa in grado di suonare e un gruppo immaginario composto titolarmente dai personaggi dell’omonimo cartone animato e gestito dietro le quinte da produttori e turnisti. In bilico tra pianificazioni astute e operazioni posticce, per certi versi la bubblegum rappresenta la parodia del beat: l’innegabile emergenza comunicativa di Lennon-McCartney ai loro esordi diventa con Kasenetz-Katz chiara esigenza mercantile; la semplicità dei primi dischi dei Beatles si trasforma nella banalità dei prodotti della Super K Productions. Il genere più elementare in materia di testi e melodie, armonie e ritmi della seconda metà degli anni ‘60 è quindi paradossalmente anche il meno spontaneo ma ha il merito di ispirare un’intera schiera di artisti inglesi: la musica glitterata e plastificata di Sweet e Bay City Rollers, Gary Glitter e Alvin Stardust è infatti di molto debitrice allo stile dolciastro e appiccicaticcio della bubblegum. In questo senso il migliore erede dell’esperienza di Kasenetz-Katz è Marc Bolan, un artista capace di mischiare con sapienza verità e finzione. Bolan riesce infatti a trasformare il trucco di scena in un frammento di genuinità, a coniugare l’immaginario patinato con il diddley beat e i boa di struzzo con i riff chitarristici. E in questo modo chiude il cerchio, spianando la strada a David Bowie il più grande fenomeno di pop dal tempo dei Beatles.

Gran parte della scena maggiore del fatidico lustro 1967-1972 incappa in una dinamica diametralmente opposta a quella sviluppata nella scuderia di Kasenetz-Katz. Se alla Buddha Records l’artificiosità della fase produttiva partorisce pezzi freschi ed efficaci, la schietta ispirazione di molti illustri artisti finisce per generare opere difficili e cerebrali, lontane dall’immediatezza della musica leggera. Autori e musicisti di indubbio spessore, capaci di incidere in studio di registrazione in totale autonomia e di far valere le proprie scelte creative al banco del produttore quanto negli uffici dei discografici, si ritrovano a essere animati da una spiccata propensione alla complessità. Serpeggia, conseguentemente, un approccio arty che tende a svalutare il pop-rock in quanto tale e a investirlo nuovamente di valore solo a fronte di una forte complicazione delle strutture musicali e delle architetture progettuali. Si rinuncia volontariamente alla semplicità compositiva ed esecutiva in favore di forme più elaborate e contorte ma accanto ai capolavori assoluti si danno alle stampe opere autoindulgenti. La svolta intellettualistica del pop-rock sembra quindi dare i natali a un sottogenere fantasma, agli antipodi della bubblegum ma con problematiche speculari: un tipo di popular music basato sul culto della difficoltà e sul rifiuto dell’orecchiabilità. Il sottogenere, che si potrebbe chiamare chewingrock, imbocca un percorso così anticommerciale e ostico da rischiare di compromettere la stessa qualità artistica dei prodotti finiti.

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